L’ARTISTA AMERICANO, TRA COLORI SGARGIANTI, IMPEGNO POLITICO, AMBIENTALISMO E POESIA POESIA IN MOSTRA A TRIESTE CON L’ACUTA IRONIA CHE CARATTERIZZA L’ESTETICA DI LACHAPELLE

C’è ancora tempo per andare a visitare la mostra di David la Chapelle a Trieste tra pop e kitsch, tanta fantasia e originalità. Con oltre novanta opere che ne tracciano il brillante percorso, David LaChapelle  (Fairfield, 1963) è per la prima volta in mostra in Friuli Venezia Giulia. A ospitare l’esposizione David LaChapelle – Fulmini, curata dallo Studio David LaChapelle sotto la direzione artistica di Gianni Mercurio, è il Salone degli Incanti di Trieste, un’ex storica ampia e luminosa pescheria con vetrate fronte mare, adibita da anni a sede espositiva. “Spero di infondere ottimismo”, così il fotografo americanouno degli artisti più influenti del panorama mondiale, dichiara alla città.

David LaChapelle, Behold
David LaChapelle, Behold

La mostra espone l’intera carriera di David LaChapelle, senza tralasciare alcune serie ormai iconiche (Jesus is my homeboy, Pietas con Courtney Love, American Jesus: Hole me Carry me boldly con Michael Jackson, Deluge) e altre inedite di grande formato e recentissime (2022). E proprio da una di queste ultime partiamo, a ritroso, per sottolineare un lato dichiaratamente politico della sua ricerca artistica, di primo acchito non così evidente.
Mantenendo il suo stile allegorico, unendo narrazione e decorativismo, LaChapelle si dimostra non solo un rappresentante della cultura pop  ma anche artista acuto, attento e consapevole. “Penso che l’arte debba essere un veicolo di comunicazione e promozione civile e spirituale accessibile a tutti”, sentenzia l’artista. È una notizia di cronaca a innescare la curiosità d’indagine: il Lacma, il prestigioso museo di arte contemporanea di Los Angeles, ha appena concluso una raccolta fondi da 750 milioni di dollari per il suo ampliamento. LaChapelle ribatte con Gated Community (2022), uno scatto che riflette sulla drammatica situazione economica: la California ha il maggior numero di senzatetto di tutti gli Stati Uniti. Evocando Nomadland di Chloé Zhao, il film vincitore del Leone d’Oro di Venezia (2020), il fotografo ritrae una vasta tendopoli (tende marchiate con i loghi di fashion brand) abitata da senzatetto che hanno occupato il suolo della nuova ala del museo (già preso di mira con l’opera Seismic Shift, 2012, presente in mostra).
La sua ricerca coniuga ordine formale e disordine narrativo mescolando citazionismo colto, storia dell’arte classica e riferimenti kitsch. Così accade in un altro scatto di denuncia, Rape of Africa (2009), dove citando Venere e Marte di Botticelli  (1485) personifica una Venere nera in una straordinaria e impassibile Naomi Campbell, che scruta la violenza nei confronti dell’Africa.

David LaChapelle, Stripe Bobo Mad
David LaChapelle, Stripe Bobo Mad

Una mostra ricca di suggestioni, che apre con la serie Gas Station Land Scape, maquette di stazioni di rifornimento di benzina e di raffinerie costruite in scala e poi fotografate nel contesto di un panorama reale, come la foresta pluviale di Maui e il deserto californiano. Lo stratagemma innesca un sottile gioco meta fotografico (cos’è reale e cosa non lo è?) e induce il dubbio sull’efficacia della fotografia come mezzo di riproduzione della realtà. Ciliegina sulla torta: un’intera sala è dedicata a scatti riguardanti proprio i falsi miti, le apparenze e le illusioni della società degli Anni ’90-2000, in realtà ancora attualissimi.
Se alla mostra dimenticate di leggere le didascalie, godrete solo a metà delle opere: ironiche, acute, spiazzanti, scorrono le ossessioni contemporanee, il consumismo, il rapporto con il corpo e una sfrenata esigenza di apparire. Citando Paul Gogain “Da dove veniamo? Chi siamoDove andiamo?”, sembrano urlarci le barbie di LaChapelle, bellissime, addobbatissime e fashion, in scenari devastati, desolati, apocalittici. “Can you help us?”, calza a pennello una didascalia della serie.

David LaChapelle, Orange Heliconia (N°1)
David LaChapelle, Orange Heliconia (N°1)

E l’ottimismo arriva, come promesso. La via di fuga sta nelle foto scattate nel paradiso terrestre delle Hawaii, tra paesaggi idilliaci popolati da figure mitologiche e fiori rari e polposi. È l’amore, inteso come amore puro e rispetto universale verso l’intero creato. In Our lady of the flowers (2018) e in The end of battle (2015) è la sintonia con il tutto, l’equilibrio dei passi, il sentire della natura, la deposizione delle armi e della violenza. Ma la risposta conclusiva è proprio nell’ultima sala, titolo: Revelations (2019). Anche qui, in un desolato e ventoso suburb americano, a metà tra David Lynch e Zabriskie Point, due agée, lui in completo formale e lei a tinte hippie, si stringono l’uno all’altra e si baciano. Citando il mito planetario del re del Pop nonché grande amico dell’artista, Michael Jackson (“Michael Jackson è il mio eroe” dichiarò LaChapelle) in I Just Can’t Stop Lovin’ You: “Love is the answer”.