LIBRI/ ENRICO FIERRO LA GENOVESE LA RABBIA E UN GIORNALISTA CHE AVEVA PERSO

La storia è quella di un giornalista che crede di aver perso. Gli ingredienti sono il sud, gli incontri che cambiano la vita, l’amicizia, la politica, i giornali. C’è infatti amore, passione, nostalgia, rabbia ne “La Genovese”, di Enrico Fierro. L’autore mescola sentimenti come fossero la materia prima per dare forma ai cibi per nutrirsi. Le sente queste sensazioni in maniera forte. Ma il bello è che le fa sentire anche a chi legge. E il libro si legge …in un boccone, per rimanere nella metafora del cibo, si divora con l’immaginazione, percorrendo con la fantasia i luoghi in cui si è portati, fatto per niente scontato, e si sentono addirittura le zaffate di fumo delle Turmac, le sigarette preferite dal protagonista, Frank Santaniello.

 

“J feel”, il termine anglosassone, che traduce la formula italiana “io sento”, è molto più adatto a tradurre l’intensità delle percezioni sensoriali dello scrittore, mentre si accinge a preparare questo meraviglioso cibo che sa di antico, l’unico capace di placarlo quella notte che è la sua notte e che nessuno avrebbe potuto rovinargli, mentre lentamente, quasi con venerazione religiosa si avvia verso quel viaggio che combina  sapori, odori, sensazioni, umori, celebra la tradizione ed evoca la sua fanciullezza, la mamma mentre la domenica sfogliava le cipolle.

 

“Cipolle, un chilo, Ramata di Montoro: quelle giuste. Intanto pensava  alle storie che la mamma raccontava sfogliando le cipolle: “Vedi ‘a mammà: la cervella dell’uomo – ricordava –  è come  questa sfoglia di cipolla. Delicata, la prendi con le mani e non vale niente, si rompe. Basta poco e l’uomo esce pazzo”. Ma intanto che pensava “Diede un’ultima carezza al battuto di sedano e carote, mise in un tegame di coccio abbondante olio rigorosamente extravergine, vi adagiò il pezzo di carne e lo fece rosolare….”.

 

Arrivata a pagina 208 del libro di Enrico Fierro pubblicato da Editoriale Aliberti, ho capito cosa fosse  La Genovese. Mi sono interrogata per tutte le precedenti pagine, cercando di ricordare di quella ultima  volta che sono andata a Genova, di quel tipo di pizza alta che sanno fare lì, ho pensato fosse una donna. E invece no. La Genovese è  un piatto superbo della cucina napoletana, ci vogliono anche quattro ore per farla bene. Il cibo che evoca la cultura di un luogo prima che diventasse la cultura del cibo, la stessa differenza che c’è tra i maccheroni di Alberto Sordi nel film “Un Americano a Roma”, che fa riaffiorare tutta la romanità e le tradizioni di un popolo, e la pizza “non pizza” di Carlo Cracco, che prevede un impasto diverso con più cereali combinati tra loro per rendere la pizza più croccante, e una salsa più densa rispetto all’originale, e che ha determinato la bocciatura dei napoletani: questa non è ‘a pizza, hanno detto in coro. Bisogna chiamare le cose con il loro nome.

 

Le prime tracce de La Genovese gli studiosi le avevano trovate addirittura in un antico libro del Trecento. La Genovese ripagava tutti, di sofferenze e patimenti. Ma per Frank, il protagonista del libro di Enrico Fierro, la tristezza non veniva dalle lacrime del cuore, ma dal giornalismo tradito, dall’imbarbarimento della politica, dal degrado umanitario, lui che la politica l’aveva attraversata proprio dove si fa, e ne aveva scritto di politica, proprio lui che non poteva rassegnarsi al nuovo mondo e si sentiva sconfitto, sentiva di aver perso, pensava che la sua vita era venuta proprio una chiavica. E poi c’era “a raggia”, la rabbia, che divorava Frank fino allo sfinimento, lui lupo ferito in un mondo di agnelli feroci. Di fronte a quello che era diventato il mestiere che aveva amato tanto, il giornalista, che aveva intrapreso quasi per caso per quel suo amico che gestiva l’edicola, Peppino Matarazzo, che aveva capito che quel ragazzo che portava un nome straniero, Frank, ma era italianissimo e figlio del sud, aveva delle attitudini, e infatti su quei giornali che gli regalava ogni giorno, Frank studiava e studiava: di politica, di economia, di tutto quello che c’era da sapere. Così iniziò la sua avventura nei giornali, e anche se oggi era ormai sconfortato dalle trasformazioni e ribaltamenti delle testate, una in particolare, e non sopportava quella direttora con la maglietta a “v” e la collana di perle, i capelli in una messa in piega fintamente spettinati, Frank sapeva che quello era il suo mondo, e prima di lui lo aveva capito Peppino Matarazzo che lo incitava a scrivere. E lui scriveva. Come dovrebbe fare un bravo giornalista. Senza guardare in faccia nessuno, come fece Frank pubblicando un pezzo che fece infuriare il caporedattore e l’editore, perchè scompigliava i loro personalissimi rapporti. Il giornale era cambiato, ma era il mondo che non girava più alla stessa maniera, il partito e gli editori erano stanchi. Fu l’inizio della fine. L’avvento dei new media fece il resto, la nuova economia ci andava a braccetto, bisognava trovare linguaggi nuovi, personaggi nuovi, giornalisti nuovi. E’ così che si sperpera una generazione di bravi giornalisti, quelli per intenderci, con la schiena dritta. Seguendo la giaculatoria che c’è bisogno di aria fresca, si uccide un patrimonio fatto di memoria e di esperienza. E’ sempre così che gli editori cambiano le regole del gioco per creare valore solo per se stessi, quando un giornale è politico è anche peggio. Così di fronte a quanto Enrico Fierro rievoca  ne  La Genovese, non è Frank che ha perso… Abbiamo perso tutti.  E anche il cibo non rappresenta più la cultura di un luogo, con i suoi odori, le sue coltivazioni, gli aromi, le tradizioni ereditate nelle famiglie di generazione in generazione. Al posto di tutto questo è arrivata la cultura del cibo, fatto di grandi chef, marketing, cooking show, premi sponsorizzati dalle grandi multinazionali e food-designer.

Scritto con ritmo serrato, il libro di Enrico Fierro non delude fino alla fine mentre stupisce l’eterogeneità dei personaggi, Peppino Matarazzo, lo zio Charlie, Pellegrino Diotallevi, detto Pel, Peppino Gagliardi, professore in pensione che lo invita in Calabria tra rozzezza e bellezza.

 

Enrico Fierro, nasce ad Avellino, giornalista e scrittore è stato inviato speciale dell’Unità, firmando reportage sulla guerra in Kosovo e sulla crisi dell’Albania, ha collaborato con La Voce della Campania, Dossier Sud, l’Espresso, Epoca, e ora scrive per il Fatto Quotidiano, ha pubblicato diversi libri: per “La Santa.Viaggio nella ‘Ndrangheta sconosciuta”, assieme a Ruben H. Oliva ha ricevuto il premio Globo d’Oro 2007-2008; è autore di “Dieci anni di potere e terremoto” (1990), e di “O ministro. La Pomicino Story” (1991) scritti con Rita Pennarola e Andrea Cinquegrani; “E adesso ammazzateci tutti” (2005), “Ammazzati l’onorevole” (2007). Per il teatro ha curato testo e regia di  “O cu nui o cu iddu” con Laura Aprati.

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