Antropologo, studioso di religioni orientali, conoscitore come pochi altri della civiltà giapponese, alpinista, autore di libri tradotti in 18 lingue. Ma Fosco Maraini (1912-2004) fu anche un grande fotografo. Insieme alla scrittura, limpida e comunicativa, la fotografia fu l’ingrediente principe della sua narrativa etnologica, ma sarebbe sbagliato pensare che gli scatti fossero soltanto funzionali alle sue finalità di divulgazione: la sua fu la fotografia di un vero maestro.
Il padre della scrittrice Dacia Maraini, scomparso l’8 giugno del 2004, iniziò a scoprire il vasto mondo nel 1937, in occasione di un viaggio in Tibet. L’anno successivo, dopo aver conseguito la laurea in scienze naturali all’Università di Firenze, accettò una borsa di studio per il Giappone, dove si trasferì con la sua famiglia.
Nel 1943, avendo rifiutato, con la moglie Topazia Alliata, di aderire alla Repubblica sociale italiana, fu fatto prigioniero insieme alla famiglia in un campo di concentramento fino alla resa del Giappone nel 1945. L’anno dopo la famiglia Maraini iniziò il lungo viaggio di rientro in Italia.
La sete di scoprire di Fosco Maraini però non si spense. Negli anni successivi proseguì gli studi e intraprese dei viaggi a Gerusalemme, in Corea e ancora in Tibet e in Giappone.
Nell’esposizione organizzata al Musec si possono scoprire o riscoprire 223 scatti, alcuni dei quali inediti, realizzati da Maraini fra il 1928 e il 1971 in Europa e in Asia. Ben 170 immagini ritraggono luoghi e genti dell’Italia e del Giappone, “le due patrie di Maraini: la prima per nascita e per cultura e la seconda per destino e affinità elettiva”.
Una mostra che si ripropone di “assegnare definitivamente a Maraini il ruolo che gli spetta nella storia della fotografia e, al contempo, riflettere a più livelli sui valori portanti di una forma d’arte che oggi, di fronte alle nuove frontiere della tecnologia, s’interroga sulla sua stessa sostanza”.
A restituirgli il ruolo che gli spetta nella fotografia del Novecento è il libro L’immagine dell’empresente. Fosco Maraini. Una retrospettiva (616 pp., 253 ill., Skira, Milano 2024, € 72), uscito a vent’anni dalla morte in occasione di una mostra del Musec (Museo delle Culture di Lugano, fino al 19 gennaio 2025). Non è un catalogo, bensì una monografia di tale peso scientifico da essere imprescindibile per chiunque voglia conoscerne a fondo la figura. Frutto di due anni di lavoro del curatore, Francesco Paolo Campione, direttore del Musec, e degli studiosi da lui raccolti intorno al progetto, il volume nasce dalla collaborazione tra il museo, il Gabinetto Vieusseux di Firenze, che custodisce l’immenso archivio e la biblioteca orientale di Fosco Maraini, la Fondazione Alinari per la Fotografia, che conserva e valorizza le immagini digitali, e le eredi: le figlie Dacia e Toni, la nipote Yoï, la vedova Mieko. Cui si aggiungono l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, che possiede i negativi della campagna fotografica realizzata nel 1951 con il bizantinologo Ernst Kitzinger, e la Fondazione Primo Conti di Fiesole, alla quale la figlia Toni ha affidato i materiali degli anni ’30 che riguardano Maraini e la sua prima moglie, Topazia Alliata, entrambi genitori di Dacia Maraini.
L’immagine dell’empresente per Maraini sta a significare l’attimo in divenire in cui si materializza l’esperienza. È un presente dinamico, «vivente».Condividerlo con gli altri era l’obiettivo della sua fotografia. E proprio a tale attitudine credo si debba la straordinaria freschezza di immagini che non smettono mai di incantare.
La sua visione del mondo era multiforme rinunciando deliberatamente a percorrere le strade consuete, prima di tutte quella accademica, per dedicarsi a una peculiare «formula» che mescolava in modo sapiente le immagini fotografiche, i disegni e le cartografie con un’elegante, e a tratti poetica, narrazione etnologica. Una formula che fece dei suoi libri veri e propri best-seller, ripubblicati e tradotti ancora oggi sempre con successo. Per quanto riguarda la fotografia, la considerava un tutt’uno, rifiutando la dicotomia, allora radicata, tra «professionisti» e «dilettanti».
Tra le fotografie, i ritratti di Anna Magnani, testimoni anche del rapporto affettuoso che li legò nella seconda metà del 1949, il reportage in Grecia del 1951, le fotografie dei mosaici delle chiese normanne di Sicilia (che hanno rivelato dettagli emozionanti), il «ritratto di fuoco» delle acciaierie Falck (1956), le immagini di Gerusalemme all’indomani della Guerra dei sei giorni (1967) e, non ultime, le «fotofànfole», magnifiche invenzioni iconotestuali scritte nella lingua immaginaria divenuta ormai un classico della poesia nonsense italiana.
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