DA TVSVIZZERA.IT
Oliviero Toscani: “Non ho patria ma la Svizzera è stata importante”
Il fotografo milanese, che recentemente ha svelato di avere una malattia rara, è protagonista della mostra “Fotografia e provocazione” al Museum für Gestaltung di Zurigo. Autore di diverse campagne pubblicitarie e di decine di migliaia di ritratti, Oliviero Toscani racconta a -SWI swissinfo.ch la sua vita: dalla scuola di specializzazione frequentata a Zurigo alle sue celebri provocazioni fotografiche.
Tvsvizzera.it: Toscani, la mostra a lei dedicata a Zurigo (con la curatela di Christian Brändle) sta avendo un grande successo tanto che è stata prolungata di quattro mesi fino a gennaio 2025. Si aspettava una partecipazione di pubblico così elevata?
Oliviero Toscani: Non mi aspettavo tanto successo. Anzi mi domandavo addirittura come mai facessero una mostra sul mio lavoro. Per me è davvero un vero prestigio dato che il Museum für GestaltungCollegamento esterno, è uno dei più prestigiosi al mondo. Ci passavo prima di andare a scuola due volte al giorno quando studiavo a Zurigo. Lì vidi le più grandi mostre dei fotografi più importanti. È stata veramente una sorpresa.
Come è nata l’idea della mostra?
Al direttore del museo Christian Brändle l’idea è venuta dopo aver visto la mostra su di me che fecero a Palazzo Reale a Milano nell’estate 2022. Lì avevamo avuto molti contatti e poi un giorno mi disse che voleva replicarla al Museum für Gestaltung di Zurigo.
È stato coinvolto nell’allestimento della mostra?
Sì, Brändle è venuto qui a casa mia a parlarmi di questo progetto. Insieme abbiamo fatto il modellino in miniatura ed è stato interessante il modo con cui lui è riuscito ad analizzare il mio lavoro in un modo così innovativo. Forse perché anche lui ha fatto la mia stessa scuola e anche lui ha avuto la stessa formazione. Sono felice che la mostra sia stata fatta in questo modo e con questo taglio e con questa visione non solo fotografica ma anche incentrata sul rapporto sociopolitico della foto.
Nella mostra sono esposte molte foto delle sue campagne che fecero scalpore per i suoi contenuti perché parlavano di problemi e questioni quotidiane come il razzismo, l’integrazione, la malattia, la guerra. Lei ha dichiarato che la provocazione è l’essenza dell’arte. È quello che l’ha guidata in tutta la sua vita professionale? Per lei la fotografia è stata sempre provocazione?
Se uno vuole lavorare nel mondo dell’arte, deve capire che provocare è basilare. Ma non è una cattiva parola perché la provocazione può anche portare cose positive come pace, benessere, felicità. Noi diamo un’accezione negativa perché pensiamo alla provocazione come azione negativa perché siamo negativi, perché facciamo le guerre e non conosciamo la pace.
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L’arte deve mettere in discussione sempre tutto non deve compiacersi della sua bellezza. Deve andare contro e deve aiutare a cambiare il tuo punto di vista e le tue idee e deve riuscire a mettere in discussione il tuo credo e le tue sicurezze. Bisogna però essere capaci di produrre arte e fare in modo che ciò che si produce sia un problema anche per te. Il primo a essere provocato deve essere l’artista che provoca.
Recentemente ha anche affermato che la fotografia è democrazia e che oggi siamo tutti fotografi e fotografiamo qualsiasi cosa. È un bene secondo lei?
La fotografia è nostalgia e ritrae solo quello che è già successo. Ma diciamo che oggi è molto più utile. Io non sono alla ricerca di quello che di solito molti fotografi ricercano come tecniche particolari di bianco e nero o l’estetica dello stampare. Per me la fotografia è un documento sociopolitico. Viviamo di immagini quindi ciò è la prova che l’immagine è un’azione sociale e politica in cui devi avere un punto di vista che non è solo quello estetico.
Lei era un predestinato: suo padre, fotografo del Corriere della Sera, la portò un giorno del 1957 a Predappio in occasione della tumulazione del corpo di Benito Mussolini. In quell’occasione fotografò Rachele Guidi, la moglie del Duce. Quella foto fu poi pubblicata sul giornale l’indomani.
Partimmo molto presto e arrivammo al cimitero che era pieno di fascisti in camicia nera. Io non conoscevo nessuno e mio padre mi mise in mano una macchina fotografica dicendo di scattare quello che vedevo. Ad un certo punto notai del trambusto attorno ad una macchina nera dalla quale scese questa signora velata di nero scortata da due carabinieri. E le feci un paio di scatti. Mio padre, quando sviluppò il rullino, disse: “Hai fatto la foto giusta”.
Poi alla fine del liceo decise di specializzarsi in Svizzera alla Kunstgewerbeschule di Zurigo: come mai? Fu suo padre a suggerirglielo?
Mio padre diceva “se vuoi fare questo mestiere è meglio che studi” e mia sorella, che aveva frequentato l’accademia di Brera e che era molto informata su design e fotografia, consigliò ai miei genitori di farmi studiare a Zurigo perché quella era la scuola più importante in Europa. Allora mi presentai all’esame di ammissione, mi presero e lì rimasi cinque anni dal 1960 al 1965.
Toscani è tra le persone che nell’ottobre 2001 si trovava nella galleria autostradale del San Gottardo, dove, dopo lo scontro tra due camion, scoppiò un violento incendio:
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A proposito di provocazione, proprio al suo lungo soggiorno a Zurigo, è legato un aneddoto curioso su un’azione che lei fece e che scatenò un polverone su un tema nascosto e che ancor oggi fa discutere come la questione dell’accoglienza svizzera dei lavoratori italiani immigrati negli anni ’60-’70.
Ero andato con i poliziotti del lago a fare delle foto a dei cigni che dovevano essere soppressi perché vecchi e malati. La cosa mi impressionò e mi inventai un’idea anche perché al Governo cantonale c’era un politico molto razzista nei confronti degli stranieri e degli italiani. Invitai un paio di lavoratori italiani che vivevano in condizioni critiche in un container a prendere un paio di cigni da abbattere e, insieme al rappresentante della CGIL, organizzai un barbecue a Bellevueplatz per cucinarli. A quel tempo era discriminatorio essere italiano e ci trattavano come ora noi trattiamo gli immigrati in Italia. Invitai la stampa e lo scandalo era completo: “Gli Italiani mangiano i cigni del lago” titolavano l’indomani i giornali. Ma una parte della stampa andò oltre approfondendo le discriminazioni e le condizioni di vita dei nostri concittadini.
Anche se lei è cittadino del mondo, parla diverse lingue ha vissuto e lavorato in diversi posti, possiamo considerare la Svizzera come una sua seconda patria? Ci è tornato tantissime altre volte anche per insegnare all’Accademia di Architettura di Mendrisio di cui è stato anche fondatore.
Io non ho patria…però la Svizzera è stata sicuramente molto importante per me soprattutto in quel momento così cruciale della mia vita, a 20 anni, età in cui cominci a doverti amministrare da solo e devi fare delle scelte. Trovo che la Svizzera sia stata generosa con me permettendomi di frequentare questa scuola cantonale che era praticamente gratuita. Non come la scuola del design di Milano di oggi dove ci possono andare solo i figli di papà…
Alla Kunstgewerbeschule Collegamento esternoc’era un altro metodo di insegnamento rispetto all’Italia e imparai che si possono fare le cose con qualità, impegno e responsabilità. E poi ho imparato il tedesco, una lingua che mi intrigava. Ci sono andato anche per questo, per avere la possibilità di imparare un’altra lingua che non è stato un ostacolo ma anzi, al contrario, una scoperta.
Tornando alla mostra a Zurigo, andrà a visitarla?
Sicuramente.
Alla stampa italiana ha dichiarato che, dopo la visita alla sua mostra, ne approfitterà per farsi accompagnare in un centro di aiuto al suicidio. Era una battuta probabilmente e non una delle sue provocazioni. Ma alla fine è stata lo spunto per parlare di un tema difficile come l’eutanasia mettendoci nuovamente la faccia e soprattutto il corpo.
Devo dire che la mia era solo una battuta e non una provocazione. E comunque non lo trovo così strano. Abbiamo il diritto di decidere la nostra esistenza e io sono sempre stato dalla parte di chi si batte per le libertà. Una cosa che mi è venuta istintivamente per approcciare un argomento difficile ma che poi è diventata serissima perché la gente, su questo tema, ha cominciato a ragionare.
Prima, soprattutto in Italia, quando si parlava della morte le persone si toccavano e questa cosa mi ha sempre impressionato: questa mancanza di coscienza in base alla quale se vivi poi muori. Volevo solo proporre una risata su qualcosa di serio.