Per fotografare bisogna mettere sulla stessa lunghezza d’onda il cuore, la mente e gli occhi. Per Henri Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie, 1908 – Montjustin, 2004) era questo il messggio più potente che un archetipo del fotogiornalismo ha lasciato fino ai nostri giorni. In questo breve documentario il grande maestro della fotografia parla in incognito di fotografia nel filmato recuperato dalle Teche Rai.
A vent’anni dalla sua scomparsa, lo straordinario lavoro del fotoreporter francese continua ad essere un punto di riferimento per il settore. Ora le sue preziose considerazioni sul mestiere che lo ha reso famoso in tutto il mondo sono state recuperate nel documentario Rai “Primo piano. Henri Cartier-Bresson e il mondo delle immagini”, anno 1964.
Andato in onda una sola volta, e riscoperto da Rai Teche e Rai Cultura che lo ha riproposto lunedì 27 maggio alle 19.20 su Rai 5per la serie Dorian, il documentario con testi di Giorgio Bocca e regia di Nelo Risi è un inestimabile documento.
Protagonisti sono Henri Cartier-Bresson, che appare come una sagoma in controluce, e Romeo Martinez, allora direttore della rivista Camera e storico della fotografia, che lo intervista.
“Il pubblico – afferma Bresson nel documentario – mi vorrà scusare se non lo guardo in faccia, ma il lavoro di cui mi occupo mi costringe a conservare l’anonimato. È un mestiere che si esercita a bruciapelo, prendendo la gente alla sprovvista e dove non è consentito mettersi in mostra”.
Il fondatore dell’agenzia Magnum non si mostra dunque, per dar spazio unicamente alle parole e ai suoi scatti. Lui che si definisce un memorialista, più che un reporter, riflette sulla fotografia e sul ruolo di tale medium.
Nel breve estratto video si vede ad esempio un cucciolo di scimpanzé tenere in mano una macchina fotografica: Bresson ragiona sul fatto che anche il primate sia in grado di scattare una foto, come del resto molte persone comuni, portando ad esempio i turisti.
Criticando così apertamente la società di sessent’anni fa che, a suo dire viveva in “un’epoca che violenta la natura e disintegra l’immagine”, il grande maestro spiega: “Per me occorre rigore, un certo controllo, una disciplina, dello spirito, una cultura, infine intuizione e sensibilità. Ci vuole anche un certo rispetto per l’apparecchio e per i suoi limiti. Ci vuole occhio, cuore e cervello, fuori di questo la fotografia non mi interessa minimamente”.