ROMA CITTA’ APERTA TERESA GULLACE E LA MITRAGLIATA DEI NAZIFASCISTI TRA SANGUE E MIMOSE IL 3 MARZO 1944 A VIALE GIULIO CESARE

Era una donna minuta Teresa Talotta Gullace. Calabrese di Cittanova, una cittadella in provincia di Reggio Calabria, aveva i lineamenti tipici meridionali che quasi contraddistinguono le donne di quell’area del sud. Ma era una donna forte e coraggiosa. Con quel vestito nero Anna Mangani la raffigura perfettamente nel film Roma Città Aperta: mora e piccolina come Teresa, Nannarella forse ha avuto un padre calabrese che non la riconobbe mai e lasciò sola sua madre Marina Magnani. E’ questo che si crede a Tropea, ridente cittadina a strapiombo sul mar Tirreno che diede i natali anche a Raf Vallone, Tropea non è troppo lontana da Cittanova che ogni anno ricorda il martirio di Teresa Gullace con convegni e celebrazioni. Anna Magnani fece fare delle ricerche sull’identità di suo padre e le tracce portavano a un certo signor Pietro Del Duce, di Tropea appunto. Inutile sottolineare, forse, che le sue sembianze fisiche riportano molto ad una donna calabrese…Ma Nannarella ad un certo punto fece interrompere le ricerche, dicendo con il sarcasmo che la caratterizzava, che  non sarebbe voluta essere “a fija del duce”.

Incinta del sesto figlio la mattina del 3 marzo 1944 Teresa Gullace era andata a viale Giulio Cesare nel rione Prati a portare un pò di pane e patate a suo marito Girolamo che era stato rastrellato il giorno prima. A pochi passi da San Pietro, superata Porta Cavalleggeri, oltre via delle Fornaci e la stazione San Pietro, c’è Vicolo del Vicario. Proprio qui, accanto alla zona abitata dai fornaciari, chiamata non a caso Valle dell’Inferno, sorgeva un nucleo di baracche di immigrati meridionali che cercavano fortuna a Roma. E Girolamo era riuscito a trovare lavoro presso una ditta tedesca. Ma il salario non era certo sufficiente per sfamare la famiglia e permettersi anche un’abitazione civile. Erano miserabili tra i poveri, le persone che vivevano nelle baracche, come descriveva anche Ettore Scola nel film “Brutti sporchi e cattivi”, e Teresa e Girolamo vivevano in pace in uno dei baraccamenti come ce ne erano tanti a Roma in quel periodo storico e dove vivevano i meridionali arrivati a Roma in cerca di fortuna, e la fortuna per loro era più che altro trovare un lavoro da manovale nell’edilizia. Altro non gli era consentito. Lavoravano a giornata, e quindi guadagnavano solo quando potevano lavorare, costretti a continui spostamenti, si accontentavano di quello che trovavano pur di portare qualche soldo in casa. Spesso ci si dimentica che i palazzi di Roma sono stati costruiti con la fatica di questi poveri emigrati, con il loro sudore che non avevano i soldi per poter comprare le case che essi stessi costruivano.

Lavoravano a giornata come manovali; manodopera non specializzata costretta a continui spostamenti e licenziamenti. Il poco salario non era certo sufficiente a sfamare tutta la famiglia, figurarsi comperare una casa, così vivevano in baracche di fortuna. Il regime fascista per una parte di questa umanità dimenticata anche dagli Dei aveva fatto costruire delle borgate ai margini di quella che fino a quel momento era considera la Roma storica, è per questo che il sociologo Franco Ferrarotti in un suo libro spiegò come Roma da centro fosse diventata periferia, tanto si era estesa lungo le arterie come la Prenestina, la Tuscolana, la Tiburtina.

 

 

 

Vito Annicchiarico, il piccolo Marcello nel film Roma Città Aperta, che è cresciuto al quartiere Pigneto di Roma, racconta infatti che i ragazzini, tra cui lui a undici anni, si recavano a piedi a piazza Barberini per prendere i giornali e fare gli “strilloni”, proprio perchè al Pigneto, finiva la parte sud-est della città, oltre c’erano solo i prati. Ma se è vero che il regime fascista allontanava la povera gente dal centro di Roma perché la Roma imperiale non poteva far vedere tanta miseria, è anche vero che l’esodo dal sud serviva alle imprese per avere braccia da lavoro a buon mercato. E Girolamo e Teresa erano una giovane coppia piena di buona volontà e coraggio quando lasciarono Cittanova dalla provincia di Reggio Calabria. La loro storia parte proprio da uno di questi baraccamenti romani che esistevano malgrado la volontà della propaganda fascista di tentare di nasconderli. E quella mattina del 3 marzo 1944 Teresa che aveva già cinque figli ed era incinta del sesto, che portava in grembo già da sette mesi, fu mossa dall’amore per suo marito e preparò così due sfilatini con le patate da portare a Girolamo che sicuramente, pensò, non aveva niente da mangiare.

 

 

 

“Abbiamo pensato che non avesse da mangiare, mi dice Umberto, così la mattina del 3 marzo mamma mi ha detto: andiamo a cercare papà e vediamo se possiamo portargli qualcosa. Ha preparato due sfilatini con le patate lesse, non c’era altro, e una boccetta di vino rosso. Ma una sventagliata di mitra davanti alla gente incredula accorsa lì ugualmente in cerca dei propri cari, la gettò a terra e per sempre. Umberto non vide sua madre accasciata a terra e priva di sensi perché era andato al cantiere dove suo padre lavorava fino al giorno prima nel quartiere di Monteverde, perché Girolamo, vedendolo dalla finestra della Caserma da dove si era affacciato, gli disse che aveva bisogno del certificato della ditta tedesca che attestasse che lui lavorava proprio lì.  E la sorte aveva voluto che Girolamo rastrellato dai tedeschi lavorasse in realtà in una ditta tedesca. In cuor suo, sperava che questo lo avrebbe aiutato a dimostrare che lui era una persona perbene, un lavoratore, non era un partigiano, né un ebreo, né un facinoroso.

 

 

I rastrellati stavano all’ultimo piano della Caserma e si affacciavano dalle finestre per vedere se fuori c’erano i loro familiari. A Roma, quando c’era un rastrellamento, in pochissimo tempo, la notizia faceva il giro di tutta la città. E succedeva spesso che la gente andasse a verificare a Regina Coeli, o a viale Giulio Cesare, se i loro cari fossero stati portati lì.  “Sulla via, ricorda ancora Umberto, passava avanti e indietro una motocicletta con due SS, uno guidava e quello di dietro agitava in aria il mitra. Prima lo puntava contro l’assembramento delle donne per non farle scendere dal marciapiede, e poi lo alzava e sparava contro le finestre per far rientrare i rastrellati che erano ancora affacciati. E’ proprio mentre questi facevano avanti e indietro, che si è affacciato mio padre e mi ha fatto dei segni, mi dice Umberto. E’ così che io ho capito che dovevo andare al cantiere dove lavorava e farmi rilasciare un certificato, una dichiarazione della ditta che attestasse che lui lavorava lì, che non era uno sfaccendato”.

 

 

Tra l’altro, ironia della sorte, il cantiere era di due tedeschi. Che faccio, prendo il tram e vado a piazza Rosolino Pilo mentre mia madre rimane lì ? Pensai tra me e me. Se fossi rimasto forse non l’avrebbero ammazzata… Erano tutte donne che avevano una vita di stenti”, mi dice commosso Umberto.

 

(Vito Annicchiarico, il piccolo Marcello, su per le scale di Via Montecuccoli, una scena del film Roma Città Aperta)

 

 

I nazifascisti nella Caserma di Viale Giulio Cesare ritenevano infatti che non bastasse la parola di Girolamo, avevano bisogno di un certificato che avrebbe potuto rendergli la libertà. E’ per questo che Umberto non fu presente alla scena drammatica dell’uccisione di sua madre, davanti a tutti le altre donne che protestavano perché avevano rastrellato i loro uomini, padri di famiglia. Persone che avevano bisogno solo di lavorare per non morire. Quando Umberto però tornò a viale Giulio Cesare con il certificato per suo padre, sua madre Teresa non c’era più. Vide invece tante donne attorno a un corpo senza vita, che dicevano a voce bassa: “Poveretta!”… “Come l’hanno trucidata”, e accanto un carrettino di mimose e tanto sangue. Sangue e mimose.

 

(Vito Annicchiarico a Via Montecuccoli, ph Simonetta Ramogida)

 

 

Era marzo. Adesso sui muri di quella Caserma c’è una tavola in memoria di Teresa Gullace. Suo figlio Mario ha dedicato tutta la vita perchè sua mamma fosse ricordata con una Medaglia al Valore Civile. E’ forse per questo che tutti hanno creduto che fosse Mario il bambino cui Roberto Rossellini si ispirò per la costruzione del ruolo di Marcello (Vito Annicchiarico), il figlio della sora Pina (Anna Magnani) nel film Roma Città Aperta.  Poi nella ricorrenza dei 50 anni dalla sua morte, le Poste decisero di emettere un francobollo intitolato a Teresa Gullace. E Mario scrisse a Vito Annicchiarico, per rammaricarsi del mancato riconoscimento anche a don Giuseppe Morosini, figura storica della Resistenza che nel film di Rossellini diventa don Pietro (Aldo Fabrizi). Il carteggio tra Mario e il piccolo Marcello è custodito nel libro: Roma Città Aperta Vito Annicchiarico il piccolo Marcello racconta il set con Anna Magnani Aldo Fabrizi Roberto Rossellini, edito da Gangemi nel 2017, in occasione delle celebrazioni del 70esimo anniversario dall’uscita del film. Nel libro, ho ripercorso gli avvenimenti che portarono al grande film del Neorealismo attraverso documenti e interviste, fotografie inedite e ritagli di giornali dell’epoca.

Mario è venuto a mancare proprio nel giorno in cui si celebravano i 75 anni della Liberazione di Roma, era il terzogenito di Teresa Gullace, la martire cui Roberto Rossellini si ispira per girare il suo capolavoro, Roma Città Aperta. E’ stata l’Anpi a diffondere la notizia della scomparsa di Mario Gullace durante le celebrazioni organizzate dal Campidoglio.

 

 

Quando ho incontrato Umberto mi ha detto che quella mattina del 1944, quando tornò a viale Giulio Cesare con il certificato rilasciato dalla ditta dove lavorava suo padre non trovò più la madre, “Mi cominciavo a preoccupare e sentivo le persone accorse lì che facevano commenti e dicevano: “Poveretta, come l’hanno ammazzata, disgraziati, maledetti”. Poi sull’angolo del marciapiedi – mi dice Umberto ormai più che ottantenne – vidi un mucchio di mimose e sotto c’era del sangue: “Mamma mia”! Ho detto tra me e me, “che è successo qua?” C’era un vecchietto seduto su un banchetto. Avevo pensato che stesse vendendo, le mimose… e mi veniva da dirgli: “Ma che stai a venne e mimose co’ tutto ‘sto macello che ce sta?! E motociclette, er mitra”… E poi però non gli ho detto niente… Era il 3 marzo e ho pensato che per questo c’erano le mimose”…Quando mi parla Umberto non riesce a trattenere il dolore, che è sempre lì, presente, come fosse ieri, e mi dice sussurrando che gli hanno rovinato la vita…

“E allora ho fatto di nuovo un salto a via Candia, continua nel suo racconto Umberto, dove abitava la comare di mia madre che mi ha detto subito: “Umberto, vieni qua, stai buono, che mamma adesso viene. E intanto piangeva, piangeva e si asciugava le lacrime… Così ho capito”…

 

Ogni anno, il 3 marzo viene deposta una corona davanti alla Caserma di viale Giulio Cesare, dove la martire Teresa Talotta Gullace fu trucidata.

Roberto Rossellini, mandò a casa di Girolamo Gullace i suoi collaboratori per chiedere se poteva realizzare un film che parlasse della loro storia, anche questo lo racconta Umberto Gullace il giorno in cui l’ho incontrato a Roma vicino la sua abitazione. Girolamo acconsetì, è così che nacque Roma Città Aperta. Nel viale Giulio Cesare, sulla lapide che ricorda Teresa Gullace c’è scritto:
1944, nel cuore di Roma Teresa Gullace uccisa dai nazisti. Le braccia verso il marito le arrivò addosso la morte. Il suo Girolamo era stato rastrellato.

Anna Magnani ne interpretò il personaggio in “Roma città aperta”.  Umberto, secondogenito di Teresa rimane l’unico prezioso testimone della famiglia e di ciò che accadde alla madre. Umberto è oggi un sorridente e tranquillo signore in età avanzata.  Racconta sempre con grande affetto la sua storia: “I miei genitori erano entrambi di Cittanova, in provincia di Reggio Calabria, mi dice. Mio padre, Girolamo Gullace, è nato nel 1903 ed è venuto qui a Roma quando aveva diciotto anni: faceva il manovale in cantiere”, prosegue. “Mi ha portato a lavorare in cantiere che avevo tredici anni e ne sono uscito che ne avevo sessantadue. Io lavoravo con le gru, la mia vita l’ho passata nelle cabine: la mattina mi arrampicavo, a mezzogiorno scendevo e pranzavo, all’una risalivo, alle cinque scendevo e andavo a casa”.

 

 

Girolamo Gullace è venuto a mancare nel 1976 all’età di 72 anni. Umberto descrive la sua baracca a Vicolo del Vicario dove abitavano in sette. “Aveva una sola stanza”, dice, l’acqua si doveva prendere all’esterno, non c’era né gas, né luce e anche i servizi erano al di fuori della baracca. “Eravamo tutti meridionali, era un villaggio di baraccati che venivano dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia. Tra queste povere persone chi poteva si prendeva un pezzetto di terra per fare l’orto, e avere così la verdura, un po’ di insalata da mangiare, altri magari col tempo di compravano una baracca più grande, con due camere e vendevano quella che avevano già”.

 

 

 

Era stato Pier Paolo Pasolini a fare un viaggio nelle baracche di Roma portando la sua macchina da presa tra quelle persone umili ma piene di dignità, questo sarebbe stato inoltre lo scenario del suo primo film, Accattone; e anche Liliana Cavani, nel documentario “Subalterni nelle baracche”, aveva immortalato negli anni sessanta la vita dei poveracci provenienti dal sud per trovare fortuna in una grande città come Roma.

 

 

Umberto mi dice infine: “Di quel periodo ho un brutto ricordo per via della povertà”.

 

“Il primo paio di scarpe, mi rivela, le ho avute con la befana fascista, erano proprio scarpe nere, con la suola, io ero sempre stato con gli zoccoli. Durante la guerra non si trovava niente, c’erano le tessere annonarie, era tutto razionato. Allora noi, che eravamo una famiglia numerosa, scambiavamo i bollini; in cambio dei bollini del burro, che per noi era un lusso, prendevamo quelli della pasta”.

 

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