FOTOGRAFIA/ L’ANTROPOLOGIA PER IMMAGINI DI CECILIA MANGINI LE DONNE E IL SUD

La fotografia antropologica ha avuto il merito di far consocere al mondo il sud d’Italia, espressione di un nuovo linguaggio mediato dall’immagine, è riuscita a mettere al centro l’uomo, i suoi riti, i suoi costumi e a raccogliere attraverso la testimonianza fotografica le tradizioni popolari che si svelano ai nostri occhi proprio grazie ai precursosi di quell’esperimento che nel corso del tempo ha visto svilupparsi itinerari di ricerca che aprono l’orizzonte visivo sull’universo uomo. In Sicilia, è con Ferdinando Scianna, fotografo che nasce a Bagheria, che si fa strada questa tipica forma di arte che cattura istanti e stagioni del vivere quotidiano. Fosco Maraini con i suoi lavori soprattutto in Giappone appartiene a questa branca, che ha avuto anche in Cecilia Mangini un’illustre interprete, col passo lieve di una donna che fotografa altre donne e le loro storie, le loro tradizioni, il loro mondo.

 

 

 

Chi conosce il sud capisce anche la forza interiore di queste immagini. Cecilia Mangini le ha lasciate a noi per testimoniare un tempo che pare lontano ma per chi si avventura tra i luoghi senza tempo del mezzogiorno d’Italia sono lì a testimoniare quello che c’era e quello che c’è ancora. Il sud come stato d’animo rimosso da una cultura fondata sul consumo e sull’apparire dove il mostrare si fa sempre più forte rispetto all’essere e diventa potere. Ma queste foto rimandano immancabilmente all’interiorità, al sentimento, sia pure nella parte estrema del paese, tanto maltrattata, vituperata, violentata e sempre più gracile, quella stessa parte da cui essa stessa proveniva e che conoscevsa bene.

 

 

È andata via in una giornata fredda di fine gennaio. Con lei vola per sempre una delle pagine più alte della storia della fotografia, dell’antropologia e della cultura documentarista italiana e internazionale. Le sue Visoni e Passioni hanno percorso l’intera Italia dal Dopoguerra ad oggi, ponendo un’attenzione lenticolare su tutti coloro che hanno vissuto ai margini, alle donne del sud perennemente in lutto, agli operai, ma anche e soprattutto alle grandi personalità del cinema, della letteratura e dell’arte.

 

 

 

Fra il materiale immenso, fatto di provini, stampe, appunti, immagini e documentari commuovono per il taglio malinconico e poetico, ma profondamente antropologico, gli scatti dedicati ad una contadina di Mola del 1958, in cui un anziana donna pugliese è chinata d’innanzi ad un altare domestico e perpetuo, in un gesto appartenete ad altri tempi, dove la magia e il rito hanno scandito la quotidianità. Quella “cultura della miseria” teorizzata da Oscar Lewis, è stata con Cecilia Mangini documentata attraverso un occhio fotografico tutto al femminile, dalla quale emerge un patrimonio del reale che rimarrà fonte di studio perenne e prezioso da cui trarre ancora considerazioni antropologiche. In una nota di qualche tempo fa, Cecilia ha scritto: “la realtà è una divinità. È una divinità elargita a chiunque sa afferrarla nel momento in cui le immagini cinematografiche danno il senso della realtà, il senso di quello che scorre insieme e dentro la nostra vita come un fiume carsico che ogni tanto affiora, scompare e ricompare”. Purtroppo oggi quella realtà da lei sempre indagata con energia profonda, è triste: perdiamo tutti una donna magnetica, un’artista colta e combattiva del sud.

Nata a Bari nel 1927, Cecilia Mangini è stata una documentarista che ha scrutato temi complessi del mondo in profondo cambiamento, come la morte, il lutto e la lamentazione funebre, e lo ha fatto con gli strumenti che meglio hanno interagito con sua personalità: la fotografia e la cinepresa. È entrata nelle case, ha dialogato con la gente, ha registrato l’ultima testimonianza del pianto rituale pugliese a Martano, un piccolissimo centro del Salento, sulla scia dell’incontro con Ernesto De Martino. Da qui nasce il film documento con Pier Paolo Paolini che ne scriverà i commenti, Stendalì. Suonano Ancora (1960), dove le contadine del sud urlano il loro dolore ancestrale per la morte: lo “scandalo magico” per ciò che non si accetta.

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