25 APRILE/ IL PARTIGIANO, LA POPOLANA, IL PARROCO E IL PICCOLO MARCELLO: “ROMA CITTA’ APERTA”, STORIA DELLA RESISTENZA ANTIFASCISTA DI FAME E DI LIBERAZIONE

Roma Città Aperta”, capolavoro cinematografico di Roberto Rossellini, rivive grazie a “una testimonianza storica su una città e su un’epoca”. E ciò “lo rende un film ancora più prezioso, perchè racconta il clima di sopravvivenza con gli occhi di un bambino, e quindi di gioiosa sopravvivenza”. Così Adriano Aprà, critico cinematografico e regista, ricorda il film di Roberto Rossellini che rivoluzionò il modo di fare cinema, e del quale il “piccolo Marcello” rappresenta l’ultimo testimone a settanta anni dall’uscita del film.

 

 

 

Aprà osserva che “la memoria folgorante di Vito Annicchiarico”, ci fa immaginare e ci fa rivivere Roma Città Aperta, che è stato un film girato in condizioni difficilissime. Si protrasse fino a giugno 1945, sei mesi di lavorazione si giustificano solo col fatto che ci sono state diverse interruzioni. C’era la maledetta ricerca di soldi – dice – poi Aldo Venturini ha salvato il film”, perchè ne diventò il produttore. Roma Città Aperta – rileva ancora Aprà – non risente per niente di queste difficoltà, e questo dimostra anche la grande maestria di Rossellini, contro chi lo ritiene un regista non troppo pignolo”. Per il critico cinematografico infatti “Roma Città Aperta” è un film in cui uno non cambierebbe nessuna inquadratura. Rossellini non dava l’importanza storica che il film ha per tutti noi, ma lo considerava un film tradizionale. E’ con Paisà che poi che il regista inventa veramente uno stile nuovo, con un realismo allucinante e allucinato”.

 

 

“Roma Città Aperta “si staglia nella memoria proprio per la qualità drammaturgica di trasformare la realtà bruta in un romanzo appassionante e commovente”, dice in ultimo Aprà, che ricorda anche come del film ci siano “pochissime fotografie che possono far vedere il set. “Sono scarsissime ed è un peccato. La memoria folgorante di Vito-Marcello ce lo fa immaginare, ce lo fa rivivere”.

 

Si parte a caldo, il film viene elaborato da Rossellini e Sergio Amidei, con la collaborazione di altri, subito dopo la liberazione di Roma, nel giugno del ’44 – dice Aprà – lì viene pensato, per poi iniziare a girare nel gennaio del ’45. Riferendosi ad eventi della Resistenza, i personaggi del partigiano, del prete o della popolana fanno riferimento a personaggi reali. La differenza tra realtà e finzione è minima. E’ stato poi girato in condizioni precarie da un punto di vista tecnico e produttivo, con Rossellini che si è arrabbattato per recuperare fondi, trovare location o la stessa pellicola. Nonostante questo sorprende la compattezza narrativa del film, una forza narrativa che ha colpito da subito il pubblico. Per le generazioni successive che non hanno vissuto quel periodo si potrebbe dire che uno ha vissuto quel periodo perchè ha visto Roma città aperta”.

 

 

E’ quindi una sorta di documentario real time, oltre che un capolavoro della storia del cinema:”Certamente – afferma Aprà – nell’inquadratura finale i ragazzini che hanno assistito a qualcosa di terribile per la loro età come la fucilazione di una persona a loro cara si allontanano sul panorama di Roma in cui in fondo si vede il cupolone che si era visto all’inizio del film dalla parte di piazza di Spagna. Questa chiesa, nel senso della ecclesia che unisce tutti, fa apparire questo finale che sembra disperato, un finale di morte, come un finale della vita che attenderà questa città”.

 

 

 

Quale altro messaggio lascia Roma città aperta?”E’ il film che ha aperto la porta all’Italia, un paese che usciva dal fascismo si è presentato sugli schermi internazionali, prima negli Usa e poi in Francia, come qualcosa di completamente diverso, un film che parlava di argomenti scottanti e che era girato in maniera diversa. Non a caso in Francia prima e poi in Italia si è cominciato a parlate di neorealismo”, conclude Aprà.

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