I cento drink preferiti dai grandi della letteratura mescolando nello shaker parole e ghiaccio, sensazioni e rum, immaginazione e cognac per un cin cin di grande effetto. Il viaggio a Cuba generalmente prevede una sosta all’Avana nel cocktail bar El Floridita che fu caro ad Ernest Hemingway per degustare un daiquiri o un moijto e proprio Hemingway coniò il motto da tenere a mente:” Write drunk, edit sober”. Ovvero: scrivi da ubriaco, correggi da sobrio. La linea che unisce cicchetti a talento è impervia e il baratro dell’alcolismo è sempre dietro l’angolo, al punto da dissipare il genio sull’altare della sregolatezza. Vedi Jack Kerouac e Truman Capote uccisi entrambi dalla cirrosi epatica. Senza dimenticare il delirio di Hemingway, le follie di Charles Bukowsky o di Tennessee Williams, morto soffocato da un tappo di un collirio ingoiato per sbaglio. Poi, certo, ci sono casi e casi: George Orwell preferiva una tazza di tè, al contrario di Philiph Roth che raccontò la sua dipendenza etilica, senza sconti, ne La leggenda del Santo bevitore, pubblicato postumo, con tutto il dolore del caso: un testo che resta una terribile, suprema ferita aperta. Si intitola “Bere come un vero scrittore” il libro di Margaret Kaplan che attraverso le 100 ricette originali per ricreare i drink che hanno ispirato i giganti della letteratura racconta le passioni alcoliche in biblioteca, come questa:
Nel libro di Kaplan non ci sono giudizi di sorta, né valutazioni educative. E’ una dettagliata storia del bere tra gli scrittori, con una bibliografia imponente (circa 300 voci) e un ricettario preciso nel caso vi venga la voglia di replicare. Dall’idromele di Shakespeare, con chiodi di garofano, zenzero e miele selvatico all’Eggnog di Edgar Allan Poe, con ben otto tuorli, latte, brandy e rum (una bomba) per arrivare ai rimedi post sbornia di Wodehouse serviti dal mirabile maggiordomo Jeeves a Bertie Wooster. Prendete nota: per uscire illesi dall’hangover servono un uovo crudo, peperoncino di Caienna e salsa Worcester. Chi non dà di stomaco forse ha buone probabilità di sopravvivere non solo all’ubriacatura, ma a tutte le amarezze della vita. E così via, in un crescendo di gradi: l’assenzio dei maledetti poeti francesi, lo Sherry Cobbler di Charles Dickens, il lisergico Coralio e whisky di Dante Gabriel Rossetti, passando per il Vodka Martini di Sylvia Plath fino al Greyhound tostissimo di Breat Easton Ellis: solo vodka e pompelmo.
In questo manuale curioso si attraversano epoche, stili, gusti e sapori ad alto contenuto alcolico, ma soprattutto si fotografano epoche, versi, pagine, tendenze. Una piccola storia nella storia grande della letteratura. Manca la testimonianza, semmai, per fare uscire il testo dell’autrice dal reparto “cucina e affini” e issarlo nella vetrina degli imperdibili. Per esempio quella di Stephen King, ex alcolista e tossico redento e ora irriducibile “streight edge” . Il maestro, nel 2000 con On writing: Autobiografia di un mestiere (pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer) si mette a nudo, racconta di quando scopre di essere un etilista semplicemente buttando la montagna di lattine di birra nel cassonetto. Lui, l’uomo che alle allucinazioni da alcol dedicò un capolavoro e una tragedia horror come Shining, scrisse: “A farmi decidere fu Annie Wilks, l’infermiera psicopatica di Misery. Annie era la coca, Annie era l’alcol, e decisi che ero stanco di essere lo schiavo-scrivano di Annie. Temevo che avrei smesso di scrivere se avessi smesso di bere e di drogarmi. Non fu così, naturalmente”. Prendete, dunque, il saggio di Kaplan, con i suoi deliziosi disegnini, come un viaggio parallelo nel mondo letterario. Nell’originalissimo libro si incontrano scrittori, mostri sacri della letteratura, apposta lì per svelare ai lettori come mescolare nello shaker rum cognac e visioni, parole e ghiaccio per un cin cin in biblioteca.