FOTOGRAFIA/ TANO D’AMICO: SIAMO CIO’ CHE FOTOGRAFIAMO E’ NELLE IMMAGINI CHE POSSIAMO LEGGERE LA STORIA DELL’UMANITA’

Un “libricino” “Fotografia e Destino” per spiegare il linguaggio fotografico… “quel che nessuno cerca – dice – è la storia della nostra anima”, è questa la poetica di Tano D’Amico che ricerca nei movimenti, nell’uomo, negli aspetti della vita, il lavoro, le manifestazioni, le lotte per la casa, le rivolte nelle carceri il “fattore umano”: svela il significato delle fotografie “belle” tra Leonardo e Caravaggio, e le fototgrafie “brutte”:  il potere. Una retrospettiva di un grande narratore per immagini? Non solo. Il suo lessico fotografico.

 

(Tano D’Amico – a destra nella foto – con il suo stampatore Claudio Bassi)

 

 

Il fattore umano entra nell’immagine e porta con sè tutte le esperienze, le sensazioni, la consapevolezza e la cultura di un uomo. E’ questa la sintesi che rivela il senso più profondo della fotografia, come se ogni immagine riporta indissolubilmente alla persona che l’ha realizzata, quell’emozione che ha suscitato un evento, un incontro, lo sguardo dentro, e che conduce inevitabilmente allo scatto, a fare click. 

 

“L’immagine è figlia dell’uomo, così diceva Leonardo. E’ sempre e soltanto l’uomo colui che guarda la realtà”, ma “si tende a dimenticare il fattore umano”.

Tano D’Amico lo chiama “il mio libricino”, edito da Mimesis: si presenta quasi come una retrospettiva delle sue fotografie, alcune molto conosciute come quella della ragazza col bavaglio degli anni settanta. Ha fatto il giro del mondo quella immagine. Al suo stampatore Claudio Bassi piaceva tanto, allora ne realizzò una copia per lui e la appese alla parete nel suo Laboratorio di Piazza Verdi ai Parioli a Roma. Un giorno passò a trovarlo Agnese de Donato, fotografa e giornalista, che vide quella fotografia e se ne innamorò: era una delle fondatrici della rivista femminista “Effe”, e la pubblicò. Divenne famosa, “storica”.

Poi ci sono le fotografie sulla rivolta a Rebibbia, sempre a Roma, della lotta per la casa, il funerale di Pippo Fava a Catania, gli operai ai cancelli di Mirafiori a Torino e tante altre immagini che testimoniano i movimenti, la storia, il destino delle persone.

Ma i suoi “appunti sull’immagine” col titolo “Fotografia e Destino”, rimandano alla semiotica della fotografia, alla fenomelogia dell’immagine, una terminologia che forse Tano non userebbe, ma è proprio lui questa volta a “spiegare” il linguaggio della fotografia. E ci svela che “è nelle immagini che possiamo leggere la storia dell’umanità più che nei testi”. Tuttavia “ciò che nessuno cerca è la storia della nostra anima”, scrive. “Lo sguardo degli uomini nel corso del tempo. Non la storia dei regni, dei poteri, ma la storia intima dell’animo, dello spirito, delle istanze, delle speranze, della consapevolezza”. E’ questa la poetica che ha attraversato la sua Fotografia nel corso del tempo, dagli anni della contestazione ad oggi, passando per il ’68, le occupazioni delle fabbriche, le manifestazioni degli operai, “l’arroganza delle operaie, dice, che sfidavano le cannonate tenendosi sottobraccio”. “Da bambino, ricorda, vedevo gli operai attaccare il loro giornale ai muri. Sapevo già leggere ma su quel giornale imparai a leggere una realtà che la scuola ignorava, non spiegava. C’erano fotografie spesso tragiche, tristi. In quelle pagine ci trovavo gli operai che attaccavano il giornale ai muri con le loro giacche di pelle nera e le loro biciclette”. L’immagine fotografica come apprendimento.

 

(Tano D’Amico – a sinistra nella foto – col suo stampatore Claudio Bassi)

 

La sua estetica mette l’uomo al centro e nel libro svela quali meccanismi si mettono in moto quando scattiamo una fotografia, perchè consapevoli o no, nella fotografia articoliamo la nostra materia espressiva frutto della nostra esperienza, della nostra conoscenza del mondo, della nostra sensibilità, in un processo in cui attraverso la fotografia e il nostro modo di fotografare, sveliamo chi siamo, quale è il nostro punto di vista delle cose. E questa operazione avviene banalmente senza che noi ce ne rendiamo conto. Dentro la fotografia, che lo vogliamo o no, c’è il nostro sentire, la nostra percezione, ci siamo noi stessi, anche quando usiamo le immagini per sedurre, denunciare, ricordare, riflettere. Paradossalmente è attraverso lo stile che la fotografia è linguaggio. Perché la composizione, lo stile di una fotografia funzionano come un messaggio. Così ci sono fotografie belle e fotografie brutte, afferma Tano nel suo “libricino”. “La bellezza formale, in quanto forma sterile, non è la bellezza che cerco, scrive. Le fotografie che perpetuano i nostri peggiori luoghi comuni, anche se formalmente perfette, non trasmettono la bellezza. L’immagine acritica non è davvero bella: è ingannevole”.

Allo stesso modo, “uno sguardo che esclude non è vera bellezza. Uno sguardo che fa sentire intruso chi ha un diverso colore della pelle, che rivendica le sue libertà, che sono vitali, non sarà mai il mio sguardo”. Tano scrive che “un’immagine bella regna nell’anima e nella memoria. Non “cosa” ma “vita”, perché “ciò che fa bella un’immagine è l’amore sconfinato, la tensione di tutta una vita. Così sono fatti anche i movimenti”. I poteri no. I poteri non possono permettersi immagini belle”.

“Caravaggio, ricorda, ritraeva le sue amiche prostitute come madonne. Fece scandalo, ma vinse la bellezza delle sue immagini. Vinse la bellezza delle donne non più ingabbiate dagli uomini, non più abito amaro da indossare. Il pittore per difendere le sue amiche affrontò la malavita romana e si fece assassino”. Gli elementi di una immagine bella “non si possono comprare. Si possono solo cercare e vivere”.

 

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