ART/ REQUIEM PER IL FOTOGIORNALISMO, QUALE SPAZIO RIMANE AL REPORTAGE

Requiem per il fotogrionalismo? Quale spazio resta per il reportage? Inteso come racconto profondo, che richiede tempo, il lavoro del fotogiornalista sembra essere sempre più sacrificabile, e sacrificato, nel mercato editoriale.

Di come evolva il fotogiornalismo in relazione al mercato dell’arte e dell’editoria si è discusso a Palazzo Ducale a Genova, nell’ambito de La Settimanale di Fotografia, tra giovedì 17 e domenica 20 maggio. E’  Leonello Bertolucci , fotografo e photoeditor, autore dell’unico volume italiano sul tema (Professione Photo Editor, Gremese, 2012), a lanciare la provocazione: “La fotografia è un dispositivo orizzontale, un oggetto immediatamente riproducibile in migliaia, milioni di copie. L’idea che ha prevalso per decenni è che per uno, due dollari sia possibile acquistare un quotidiano che contiene una foto che racconta qualcosa. Esistevano, anche in Italia, riviste che non facevano altro, come ad esempio Epoca”.

Oggi, con la diffusione della possibilità di produrre immagini e la drastica contrazione della disponibilità delle testate a investire nel lavoro dei professionisti, “il fotogiornalista” – continua Bertolucci ‒ “tende assai più facilmente a rivolgersi al mercato dell’arte e del collezionismo, stravolgendo così non solo la sua attività, ma la natura stessa della fotografia. La trasmigrazione del fotogiornalismo nel mercato dell’arte fa sì che una foto sia acquistata per essere riprodotta in tiratura limitata e conservata in una casa, come fosse un Picasso in un caveau”. Se i reportage del passato, della guerra del Vietnam, sono diventati pietre miliari della storia della fotografia anche perché hanno svolto un ruolo divulgativo importante, si potrà dire lo stesso di quanto prodotto oggi? “Il fenomeno è tanto più importante poiché non riguarda soltanto i singoli fotografi: anche le agenzie, Magnum in primis, hanno aperto gallerie dedicate”, conclude Bertolucci.

 

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